L'intervista: Tommaso Laquintana

23 novembre 2016 AUTORE: ANDRE#9
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Tommy, io partirei così: Laquintana è un ragazzo cresciuto a pane e basket..

Proprio così! La cosa più importante nella mia famiglia è sempre stata la pallacanestro. In casa tra fratelli e con i miei genitori si parlava sempre e solo di pallacanestro, sono un ragazzo che è cresciuto con la palla in testa. Mio fratello Vanni, il maggiore dei tre, all’età di 6-7 anni dopo aver visto il film Space Jam con Michael Jordan s’innamorò follemente di questo sport, io iniziai a giocare grazie a lui. Cercavo di imitarlo sempre e d’imparare da lui, abbiamo fatto le giovanili insieme a Monopoli, poi lui andò a giocare a Teramo e io restai in Puglia. Tutto ha girato sulla pallacanestro. I miei migliori amici sono i ragazzi con cui giocavo a Monopoli. Avevo la fortuna di avere il palazzetto vicino casa per cui anche quando l’allenamento era la sera, alle 14 stavo già li a tirare e palleggiare.

Quando hai capito che potevi giocare sul serio?

Al primo anno di B1 a 16anni a Ruvo, alle giovanili giocavo senza pensare al futuro. In B1 trovai coach Giulio Cadeo, mi disse “se tu mi fai capire che vali, giocherai”. Mi sono impegnato tanto, gli ho dimostrato che non avevo paura di fare sacrifici, mi allenavo tre volte al giorno (con l’U17, l’U19 e la B1). In campo lasciavo tutto quello che avevo, tornavo sempre con le ginocchia sbucciate.. lui mi diede fiducia e mi buttò in campo, così già a 16 iniziai con il professionismo. Giocai bene e l’anno successivo mi chiamò Bari sempre per la B1, dopo arrivò la chiamata di Capo e io ovviamente colsi la palla al balzo perché poter venire qui mi sembrò un sogno.

Da quando vivi da solo?

Sto fuori casa da quando avevo 16 anni. Sono un ragazzo molto legato alla famiglia, da piccolo il solo pensiero di lasciare casa mi faceva una paura tremenda. Pensa che gli ultimi anni di giovanili a Corato, mio padre mi accompagnava e mi veniva a prendere ogni giorno per gli allenamenti. Si faceva 180 km solo per me oltre le sue giornate di lavoro perché io non volevo stare via da casa. Avevo l’angoscia proprio di non stare con i miei fratelli. Se non ci fosse stato mio padre, avrei smesso lì di giocare. Anche a Ruvo ho sofferto la distanza, ho avuto tanti momenti di crisi, ma mi sono serviti a crescere e capire come dovevo concentrarmi su quello che stavo facendo.

Tu, Vanni e Michelangelo sembrate sempre sintonizzati anche a distanza..

Con i miei fratelli ho un rapporto bellissimo, sono la cosa più importante della mia vita. Ci sentiamo sempre, usciamo sempre insieme. Sento che loro mi ammirano tanto, mi vedono giocare a certi livelli e sono orgogliosi di me. Cerco di aiutarli sempre in tutto, dando loro consigli, a Monopoli quest’anno ci siamo allenati tanto insieme, è stato bellissimo. Quando i miei fratelli vengono a vedermi giocare è un’emozione fortissima, cerco di giocare al meglio che posso perché vorrei farli felici.

La tua famiglia è stata determinante per la tua carriera insomma..

Si. I miei genitori hanno sempre creduto in me. Loro hanno capito da subito che anche se non avevo tantissimo talento avevo una voglia incredibile di arrivare. Hanno fatto tantissimi sacrifici per me così come li hanno fatti per i miei fratelli e li continuano a fare anche adesso. Michelangelo il più piccolo adesso gioca a Brindisi, mio padre accompagna e segue anche lui tutti i giorni per gli allenamenti. Secondo me anche Michelangelo potrebbe avere un futuro nella pallacanestro. Io sto sempre lì a dirgli di stare concentrato. Gli dico sempre: “io sto giochicchiando in Serie A, ma nessuno mi ha mai regalato niente, è successo perché ho fatto dei sacrifici e mi sono allenato tutti i giorni, perchè io volevo arrivarci davvero”. E lui secondo me lo sa, perché si sta allenando tanto.

La pallacanestro si è incastrata perfettamente nella tua vita nei momenti belli e in quelli meno belli.. Ci racconti di quella volta con Brescia?

Si. Ho perso zio Michelangelo in un incidente stradale qualche giorno prima della gara. Era una colonna della mia famiglia, è stata un perdita terribile per noi. Sapevo che aveva avuto un incidente, ma i miei mi avevano nascosto i dettagli per non evitare di turbarmi, sapevamo che giocare in A2 con Capo era una cosa troppo importante. Poi alla fine di un allenamento il Pres Enzo Sindoni mi chiamò nell’ufficio dei coach e mi diede la notizia. Coach Pozzecco in quell’occasione mi ha aiutato davvero tanto, mi ha dato sostegno e aiuto, mi ha portato a casa sua e le notti dopo ho dormito con lui. Sono partito per i funerali, il club mi lasciò scegliere, ma io avevo già deciso che sarei tornato subito dopo per giocare contro Brescia, avevo voglia di fare qualcosa per lui. Volevo giocare bene e regalare la mia gara a lui. Sentivo che era lui che me lo stava chiedendo, era molto legato a me ed era orgoglioso di quello che stavo facendo. Mays non stava bene, così partii in quintetto. Sai com’è nella pallacanestro fai canestro ed entri in fiducia.. mi ricordo che mi buttai in penetrazione, ero chiuso e lanciai la palla su , non pensavo proprio che potesse entrare. Non so come ma feci canestro, sembrava che qualcuno dall’alto avesse spinto dentro la palla.. presi fiducia, giocai bene e vincemmo la partita.

Nello sport i sacrifici pagano?

Assolutamente si. Io penso che se uno fa dei sacrifici, si allena sempre, sta concentrato su quello che gli è chiesto di fare e sui proprio obiettivi, prima o poi arrivano le opportunità arrivano e lì bisogna essere pronti.
Bisogna avere pazienza e saper combattere la stanchezza che ogni tanto ti può mettere in difficoltà, ma prima o poi arriverà il momento di ognuno.

C’è chi dice che i giovani italiani dovrebbero giocare di più, c’è chi dice che non giocano quelli che non meritano di farlo. Tu sei giovane, italiano e giochi. Da che parte stai?

È vero che abbiamo tanti giocatori italiani buoni che hanno poche possibilità di dimostrarlo. Io sono fortunatissimo perché Capo mi ha dato e mi sta dando delle opportunità. Nessun altro club secondo me l’avrebbe fatto, infatti io provo a ricambiare questa fiducia facendomi trovare pronto sempre. Molti club scelgono la via più semplice e meno rischiosa, prendere uno straniero piuttosto che formare un italiano. Però voglio anche dire che ci sono tantissimi ragazzi italiani che non hanno voglia di fare sacrifici perché stanno bene economicamente a casa e non sentono l’importanza di quello che fanno. Mentre in Serbia ad esempio ci sono persone che s’impegnano perché lo sport per loro è un’opportunità di vita quasi unica. Io non sono mai stato viziato nella mia vita da questo punto di vista. I miei non mi hanno fatto mancare nulla, ma non ho avuto eccessi e questo mi ha aiutato. Da piccolo andavo a lavorare in campagna con mio padre prima e dopo gli allenamenti. Anche adesso quando sto a casa sono felice se posso aiutarlo a lavoro. I ragazzi di oggi chiedono e subito hanno dai genitori. Non possono capire che i sacrifici sono necessari.

Mi sembra di sentire Baso..

Anche Baso aiutava suo padre in campagna e ha fatto tanti sacrifici per giocare. Lui è un esempio unico per me. Mi ha aiutato sin da subito, abbiamo un rapporto quasi padre-figlio. In trasferta quand’ero in camera con lui e mi sembrava di stare a casa con un parente.

Ha smesso davvero di giocare?

Sia lui che tutti i suoi amici quest’estate mi hanno ripetuto che l’anno scorso è stato l’ultimo anno del Baso. Io non ci credevo, sono sincero, e non ci credo ancora, spero che ci ripensi. Secondo me ha ancora voglia e sicuramente ha la forza e la classe per giocare ancora. Lo vedo quando viene qui a vedere gli allenamenti, cerca di stare meno possibile, scappa e va a pescare. Magari tornasse in campo.. ci continuerò a credere sempre. Giocare con lui è fantastico, poi con questa squadra che gioca passandosi la palla, di sistema, lui ci starebbe benissimo secondo me.

Che Orlandina è questa?

Abbiamo dimostrato qualcosa anche in alcune gare perse, ovviamente i risultati fanno tutta la differenza del mondo. Abbiamo un sistema di gioco in cui tutti devono stare belli concentrati, le spaziature sono importanti, giochiamo di sistema e tutti sono coinvolti sempre. A me piace da morire. È una filosofia in cui il coach crede tanto e ci sta trasmettendo la sua energia. Io ci credo, e anche i miei compagni si stanno abituando.

Dividi la cabina di regia con Bruno Fitipaldo quest’anno..

Rispetto a Vlado Ilievski, Bruno è più simile a me come tipo di gioco. Sicuramente è più bravo di me e la società me l’ha messo davanti anche, secondo me, per far sì che io impari da lui. Io sto cercando di prendere il più possibile. È un bravissimo ragazzo, stiamo insieme anche fuori dal campo. Il playmaker è un ruolo difficile e di responsabilità, sogno di giocare il prima possibile da play titolare, ma capisco che devo migliorare ancora molto. Devo stare concentrato quest’anno e migliorare in vista dell’anno prossimo.

Orlandina Magazine